di Stefano Chiuchiarelli
Benché il tema della ‘Via Crucis’ sia consolidato da una secolare tradizione iconografica e abbia impegnato artisti provenienti dalle correnti più diverse, la sua fascinazione continua ad attirare e tormentare con la stessa forza trascinante chi decida di porsi di fronte a tale mistero. Perché, innegabilmente, ancora oggi, e forse per sempre, il percorso di sofferenza compiuto dal Cristo fino al dolore estremo della Croce, resta un mistero, per credenti e agnostici.
Il Maestro Marco Chiuchiarelli, pur non appartenendo specificamente a nessuna delle due summenzionate categorie, ha attraversato intimamente e personalmente un iter a suo modo doloroso, una ricerca spirituale che lo ha condotto, nel tempo, a misurarsi con il mistero dell’esistenza stessa. Questa tensione interiore, legata per una non breve fase della propria vita a istanze religiose e intensamente ispirata dalla figura di Cristo, ha stimolato l’artista a perseguire un interesse personale, di studio e concettuale, nei confronti della ‘via dolorosa’. La ricerca è partita da un appassionato approfondimento storico, religioso e antropologico delle fonti, che lo ha portato a collocare cronologicamente nel XVI secolo la suddivisione della Via Crucis nelle classiche 14 stazioni. Prima di allora esistevano soltanto alcuni riferimenti al tema. Con Leonardo di Portomaurizio si ha l’istituzione delle 14 stazioni come pratica devozionale.
Forte dell’approfondimento storico del tema, Marco Chiuchiarelli decide di improntare di una lettura nuova la narrazione evangelica che diviene in tal modo metafora universale del ciclo della vita, della condizione esistenziale dell’uomo.
Osservando il ciclo pittorico dalla prima all’ultima tela non si può non essere toccati dalla solitudine della figura del Cristo, e tanto più se ne avverte la solitudine quanto più la si associa agli eventi, anche miracolosi, della sua vita e della sua missione. Imprese compiute da un potere più che umano non hanno valso a chi le ha compiute il supporto e la comprensione dei più, anzi, sono state, per un gioco perverso della sorte o forse per calcolo matematico, la causa scatenante della persecuzione e dell’umiliazione dell’Uomo dei Dolori. A tal punto, che tutto avrebbe dovuto e potuto concludersi soltanto con la sua morte. Necessaria compagna dell’ultimo viaggio, la solitudine. Ed è questo il messaggio definitivo che l’artista ha fatto proprio e ha voluto trasmettere con il presente ciclo: l’essere umano è solo, e non esiste rimedio a questo male ineluttabile. Almeno non un rimedio a buon mercato.
L’intera opera è ben strutturata in una griglia che può essere articolata in tre fasi:
1) l’ ‘Ecce Homo’ in policromia;
2) la ‘Via Crucis’ in monocromo;
3) la ‘Resurrezione’ in policromia.
Formalmente il ciclo ha una struttura di piramide capovolta, in quanto si apre con il pannello dell’ ‘Ecce Homo’ di grandi dimensioni e, attraverso le 14 tele raffiguranti le stazioni, tutte di uguali dimensioni, e tuttavia minori rispetto all’Ecce Homo’, si giunge alla più ridotta ‘Resurrezione’. È un percorso che va quindi a restringersi, quasi a sottolineare la crescente durezza dell’esperienza del Cristo nel suo procedere verso la morte.
L’indagine della tematica come affrontata dalla dimensione cinematografica ha permesso all’artista di creare un’opera di largo respiro che potesse usufruire di un taglio fotografico. Questo approccio è ben visibile fin dal primo pannello, l’ ‘Ecce Homo’, a figura intera. I drappi costituiscono una sorta di sipario che si frappone tra l’immobilità del Cristo còlto in atteggiamento meditativo e l’azione che invece contraddistingue i 14 pannelli. La ‘Resurrezione’ è il dipinto più piccolo del ciclo ed è contrassegnato dal ritorno del colore.
I 14 pannelli a monocromo della ‘Via Crucis’ sono stati concepiti con fondo grigio, un colore non invasivo che lasciasse respirare la scena. Anche gli oggetti sono essenziali, mentre le figure sono tagliate così da restringere la visuale per consentire una partecipazione maggiormente ravvicinata dell’osservatore.
Nella I stazione Pilato ha già condannato Cristo e si lava le mani. Il verdetto è stato emanato, nulla può più essere modificato. Nessuna possibilità di appello.
La II stazione raffigura Gesù legato al patibulum, la trave orizzontale che veniva fissata al palo verticale in modo da formare la croce. È interessante osservare Cristo che si curva sotto il peso del legno, come se il suo corpo diventasse parte della croce stessa.
Nella III stazione osserviamo la prima caduta. Gesù però non giace a terra ma è còlto nell’atto di cadere. Le tre cadute sono collegate concettualmente: sono le tre persone della Trinità che di volta in volta cadono.
IV stazione: l’incontro con la madre sulla Via Dolorosa. Madre e Figlio, insieme, formano la croce. Lei, e solo lei, come madre può essere vicina al figlio e il figlio, a sua volta, sembra uscire dal ventre della madre, come se fosse partorito una seconda volta. È la rinascita imminente, che attende lui come tutta l’umanità, dopo la morte.
V stazione: il Cireneo. Le due figure, Cristo e Simone, si sorreggono a vicenda. Ad una prima lettura, quella peraltro comunemente accettata, il Cireneo si fa carico della croce offrendo in tal modo a Gesù un temporaneo sollievo. Nella tela di Chiuchiarelli assistiamo a un ennesimo mutamento di prospettiva: Cristo poggia la sua mano sulla spalla dell’uomo, con l’apparente intento di sostenersi. In realtà, il Nazareno offre a sua volta il proprio supporto al Cireneo, figura, in quell’istante, dell’umanità intera che trova il conforto in Cristo quando essa stessa decide di condividerne le sofferenze.
VI stazione: la seconda caduta. Cristo è in ginocchio.
Con la VII stazione l’artista vuole mettere in luce ancora una volta il ruolo primario della donna nella storia di Cristo. La protagonista è Veronica, colei che con un panno asciuga il volto di Gesù, unica figura a staccarsi coraggiosamente dalla folla accalcata per soccorrere il Salvatore. Anche in questa circostanza, dunque, la donna mostra la propria forza, un forza che evidentemente gli uomini ignorano.
La figura femminile è protagonista anche dell’VIII stazione. Le donne di Gerusalemme incontrano Gesù recando con loro un’anfora d’acqua simbolo di ristoro.
IX stazione: terza caduta. Cristo è schiacciato dal patibulum. Si compie così il percorso concettuale delle tre cadute: caduta simbolica di corpo, anima e spirito.
X stazione: Gesù spogliato delle vesti. È un momento di intimità. Cristo viene denudato, quindi non interviene nessuna figura. Si intuisce invece un velato intervento divino nel sollevarsi delle vesti verso l’alto. Il Padre, unico cui può essere attribuito il diritto di denudare il Figlio.
L’XI stazione introduce l’osservatore alla fase culminante del Cammino. Cristo è ormai giunto sul Golgota e viene raffigurato nell’atto di essere inchiodato alla croce. Il punto di vista è da terra, la partecipazione al dolore deve essere ravvicinata, solo così se ne può percepire l’intensità.
XII stazione: Crocifissione. Il dramma è prossimo alla conclusione. C’è uno spazio vuoto tra il braccio e il corpo: è lo spazio dell’osservatore che può così collocarsi ancor più da vicino e osservare gli ultimi attimi del condannato come se si trovasse a pochissima distanza da lui.
XIII stazione: La Pietà. È idealmente collegata alla IV stazione: la Madre con un gesto di amore indefinibile riaccoglie il Figlio nel ventre. Il drappo della veste funge da utero. Il mondo non ha accettato il Figlio e la Madre lo riprende con sé.
XIV stazione: Deposizione nel sepolcro. Solo nella morte il viso riacquista serenità. Lo sguardo di Giuseppe di Arimatea è privo di pupille, quasi a significare che non c’è più nulla da vedere. L’uomo non ha saputo vedere ciò che andava visto.
Da quest’ultima considerazione trova naturale proseguimento l’ultimo pannello, la ‘Resurrezione’. Si tratta, tuttavia, anche in questo caso di un’interpretazione del tutto personale dell’evento, al di fuori dei canoni rappresentativi cui siamo abituati. La tradizione vuole che il Cristo, una volta risorto, fuoriesca dal sepolcro in tutto il suo divino splendore, mondato da ogni imperfezione terrena, trionfatore supremo della Morte e aggelos, ossia messaggero di speranza di una rinascita sancita dalla sua stessa resurrezione. Ma il Cristo della tradizione iconografica è ben visibile e riconoscibile anche nel fulgore della gloria, le sue fattezze sono immutabili nel tempo, ad evitare qualsiasi dubbio sulla sua identità. Il Risorto di Marco Chiuchiarelli, al contrario, non si adagia su schemi raffigurativi prestabiliti e decisamente inviolabili. L’unico elemento ‘fisico’ che appare sulla scena è un braccio che esce da una tunica, potrebbe essere il braccio di un uomo qualunque, nulla porta a identificarlo come appartenente al corpo del Messia. Nessun riferimento che lasci spazio a una corrispondenza della Parte con il Tutto. Nessuna pietra sepolcrale sbalzata via dalla potenza divina, nessuna sentinella romana svegliata di soprassalto e attonita per la visione insostenibile da occhio umano. Nessun Uomo-Dio trasfigurato. Solo un braccio, disteso inerte lungo il corpo eppure visibilmente carico di energia, ennesimo richiamo, sì, alla solitudine dell’uomo, ma dell’uomo solo con se stesso, in comunione con sé, che può affrontare la vita con consapevolezza, fortificato da una rinascita tutta interiore, che non necessita del rombo del tuono per manifestarsi. Non è più il trionfo di Dio sulla morte fisica, ma il trionfo dell’Io sull’oscurità in cui si dibatte lo spirito che l’artista Chiuchiarelli ha voluto fermare su tela. La Resurrezione è un atto di fede e, in quanto tale, non richiede la presenza in toto del risorto; quindi anche un solo braccio può rappresentare una prova sufficiente per chi abbia desiderio di credere. Da un punto di vista meramente pittorico la ‘Resurrezione’ e l’ ‘Ecce Homo’ potrebbero essere speculari: il braccio nascosto del Cristo in attesa di giudizio sembra riapparire nell’uomo risorto.
C’è un ulteriore aspetto da sottolineare che rende questa ‘Via Crucis’ diversa da tutte le altre: l’assenza di sangue. L’artista ha intenzionalmente evitato il ricorso a facili immagini cruente, spesso grandguignolesche, cui la consuetudine iconografica ha assuefatto l’immaginario visivo dei fedeli e non. L’obiettivo era altro, ossia scardinare la visione ortodossa ricercando, senz’altro con maggiore fatica, un significato più profondo, magari nascosto, della Via Crucis. Eliminata, quindi, ogni traccia di possibile indizio ‘divino’ associato alla figura dell’ebreo Yeshua, cosa resta? Resta una duplice scelta interpretativa da poter compiere. È il verosimile miracolo operato da un dio che decide di incarnarsi, di farsi creatura e morire in nome della salvezza dell’umanità. Ma può essere altresì la storia di un uomo che deliberatamente si sacrifica per gli altri uomini, purché il suo messaggio d’amore gli sopravviva.